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Il capitalismo è un auto vecchia che va cambiata

di Francesco Manacorda


Nobel per la pace Muhammad Yunus è uno studioso di economia sociale e pioniere del microcredito, cioè della concessione di piccolissimi prestiti, che nei Paesi meno sviluppati sono sufficienti ad avviare un business Guida lo Yunus Centre

ASSENZA DI FUTURO «In Spagna metà dei ragazzi è senza impiego. E si tratta di Europa, non di Africa»

La novità peggiore di quest’anno? La crisi in Europa, che anche qui a Davos si avverte molto».
E quella migliore, professor Yunus?

«Il fatto che proprio grazie a questa crisi si sta capendo, anche se nessuno lo vuole ammettere, che il capitalismo è arrivato al capolinea». Muhammad Yunus è il più celebre pioniere del microcredito, che gli ha portato anche un Premio Nobel per la Pace. Lo scorso anno ha dovuto abbandonare la sua Grameen Bank per ombre sulla gestione degli anni passati e una dura polemica con il governo del Bangladesh, ma rimane una star anche oggi che guida lo Yunus Centre e si occupa di imprenditoria sociale. Una star anche a Davos, dove è uno dei personaggi più ricercati. Paradossalmente, si potrebbe dire, visto il suo messaggio pare conciliarsi poco con il verbo della competitività che sulle Alpi Svizzere va per la maggiore.
Eppure, proprio qui a Davos, si è dibattuto molto sui mali e le cure del capitalismo...
«E’ vero, il dibattito c’è, ma continua ad essere condotto secondo i soliti schemi. Penso che in cuor nostro siamo tutti convinti che il capitalismo non funziona più e non può più funzionare, ma nessuno ha il coraggio di dire che va abbandonato»

Ne è convinto davvero?
«Ma certo. E’ come una vecchia auto che cade a pezzi. Un’auto che forse ci potrà portare al prossimo isolato ma non certo adatta per un lungo viaggio. Invece di cercare di costruire un’auto nuova ci ostiniamo tutti a cercare di riparare quella vecchia. Ma è impossibile, il capitalismo è un modello nato più di cent’anni fa, non tiene il passo con un mondo che cambia così in fretta».
E quale dovrebbe essere la nuova auto da costruire?
«Non lo sappiamo ancora, ma se riflettiamo su ciò che vogliamo potremo costruirla di conseguenza. Dovrà avere le ali? Dovrà navigare? » Usciamo dalle metafore, professore. Lei quale società vorrebbe?
«Vorrei una società dove nessuno rimanga disoccupato, nemmeno una persona. Il lavoro è la priorità, ma non serve pensare a come creare più posti in questo sistema proprio perché il sistema non funziona più. Invece dobbiamo pensare che nessuno deve essere un mendicante, nessuno deve dipendere dal Welfare, perché tutti sono in grado di guadagnarsi da vivere».
Dalle banche, alle Tlc, alla chimica, lei ha creato molte imprese sociali. Qual è il modello che vorrebbe vedere affermarsi?
«Un modello nel quale la missione sociale dell’impresa sia integrato nella struttura dell’impresa stessa. Fare qualcosa di buono per la società non dovrebbe essere il risultato quasi accidentale dell’attività degli imprenditori, ma il fondamento della loro attività».
Lei ovviamente è conscio che molti la classificano come un sognatore.
«Naturalmente sì, ho una visione. Ma bisogna essere dei sognatori per pensare a un mondo diverso da questo. Tutti dovremmo essere sognatori, pensare di più al mondo che vorremmo tra vent’anni. Oggi il sistema è orientato a fare soldi: questo è assolutamente ridicolo. Lei pensa che lo scopo della nostra vita sia fare soldi? Io ritengo che sia la realizzazione di noi stessi».
Ma non pensa di essere una foglia di fico qui a Davos? Non è qui solo per far sì che gli esponenti del capitalismo ortodosso possano dire di essere aperti a idee diverse?

«Io parlo a lei, lei parla ai suoi lettori, questo è comunque un vantaggio per me. Se parlo a duemila persone la grande maggioranza potrà pensare che sono pazzo; ma se solo due persone cominciano a riflettere sulle mie idee per me è un successo».
Chi può aiutarla ad attuare questo cambiamento? Le multinazionali, con cui lei pure collabora, i governi o i singoli individui?
«I giovani. I giovani dai 15 ai 25 anni, oggi hanno tantissime competenze; sono più preparati di quanto fossimo noi alla loro età. Il nostro obiettivo deve essere realizzare un mondo dove le capacità dei nostri figli si possano realizzare. Non con un lavoro dalle 9 alle 5, ma in modo da realizzare tutte le loro capacità, da seguire la loro visione».

Sì, ma in concreto?
«Il mio messaggio è che si deve liberare la società. I governi sono anche loro vecchie macchine, piene di timbri e burocrazia, che funzionano come secoli fa. Non penso che siano in grado di traghettarci verso un altro modello, mentre può farlo la società civile».

E il mondo degli affari che contributo può dare?
«Dobbiamo cambiare il modello di business, che è una cosa che si può fare immediatamente. Creare società non profit, che facciano business sociale, è una cosa che si può fare subito».

Ma non è certo il modello dominante nel mondo degli affari...
«Ma se io e lei cominciamo, ci mettiamo i nostri soldi e cominciamo a decidere che la nostra attività deve avere come obiettivo il fatto che nessuno dei miei vicini resti disoccupato, allora muoviamo qualcosa. E’ questo l’importante. Altri seguiranno».
Vista dal suo punto di vista Davos è cambiata?
«Certo, quando si è in crisi si cercano soluzioni nuove, si pensa agli errori, si è più disposti a cambiare. Quest’anno le cose sono molto diverse e non parlo solo di Davos, ma del mondo dei giovani. In Spagna la metà dei giovani è senza lavoro. Stiamo parlando del cuore dell’Europa, non dell’Asia o dell’Africa. Che futuro ha questa generazione con il modello attuale? ».

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